Non solo i portuali a strettissimo contatto, per anni e anni, con materiali cancerogeni.
Nella schiera delle vittime da amianto ci sono anche i familiari che, a vario titolo, con quelle sostanze hanno avuto a che fare di riflesso. Lo ha riconosciuto ancora una volta il Tribunale civile di Venezia, che ha accolto la domanda di risarcimento presentata dalla moglie di un lavoratore portuale, ammalatasi di tumore per aver lavato per anni gli indumenti impregnati di amianto del marito e operata di lobectomia.
Alla donna, difesa dall’avvocato Enrico Cornelio, sono stati riconosciuti 43 mila euro dopo la condanna ai danni dell’Autorità di sistema portuale: una cifra considerata esigua e inadeguata rispetto alla lesione dall’avvocato della donna, che ha già annunciato che ricorrerà in appello.
Il marito della donna, scomparso nel 2014 proprio per un adenocarcinoma, aveva infatti lavorato nella compagnia lavoratori Portuali dal 1956 al 1987 con la mansione di scaricatore portuale. Sono gli anni in cui le conseguenze dell’amianto sono ancora pressoché sconosciute almeno nei luoghi di lavoro, e i dispositivi di sicurezza al lavoro sono ancora lontani da venire.
Tant’è che l’uomo, peraltro fumatore fino al 1983, per anni viene a contatto con l’amianto e con le polveri rilasciate nelle operazioni di scarico dei sacchi non sigillati. Fatto sta che con il tempo, anche alla moglie viene diagnosticato (fortunatamente per tempo) un tumore simile a quello del marito. Compatibile, ancora una volta, con l’esposizione all’amianto.
E in effetti, il contatto con l’amianto c’era stato eccome. Durante la fase istruttoria, scrivono infatti i giudici, era emerso chiaramente come la donna si occupasse in maniera stabile del lavaggio degli indumenti portati a casa dal marito.
“Il marito lavorava al porto come scaricatore delle merci dalle navi”, è il contenuto di una delle tante testimonianze portate dalla donna al processo, “lei si occupava della pulizia degli indumenti di lavoro del marito. Le tute erano portate in un borsone dal marito e lei, dopo averle sbattute a mani o con un battipanni sul poggiolo, le metteva a bagno in vasca e poi in lavatrice”.
Secondo quanto ricostruito anche dai consulenti, senza minimamente saperlo il marito aveva esposto la moglie alla sostanza tossica. Da qui il riconoscimento del nesso causale tra l’esposizione e l’insorgere della malattia. Tra le tesi portate dalla difesa dell’Autorità si sistema portuale c’era il fatto che la relazione tra il tumore e l’esposizione all’amianto poteva anche essere collegato al fumo di sigarette da parte del marito, e quindi alla sua esposizione al fumo passivo.
Tesi questa respinta dai giudici anche sulla scorta delle testimonianze, secondo cui il marito della signora non fumava mai in casa.